Littérature russe
Bulgakov e Stalin, il Maestro e il Dittatore, di Vittorio Strada
Gli autori dei due romanzi russi novecenteschi all'altezza della grande tradizione letteraria del loro Paese, «Il Maestro e Margherita» e «Il dottor Zivago», ebbero in comune almeno l'estraneità spirituale, e l'indipendenza intellettuale, rispetto al mondo comunista in cui dovettero vivere. Ma mentre Boris Pasternak, mosso da un generoso senso di inferiorità rispetto alla tragica esperienza collettiva della Russia dopo il 1917, tentò di essere, per così dire, «sovietico», cioè di partecipare al dramma storico di cui era testimone, e solo verso la metà degli anni Trenta capì la irrimediabile criminosità di quel sistema politico, e il suo tentativo quindi felicemente fallì, permettendogli di scrivere il suo liberatorio romanzo, Michail Bulgakov, invece, fin dal principio fu intrinsecamente alieno al regime rivoluzionario, col quale tentò qualche secondario compromesso tattico al semplice scopo di sopravvivere. Ma entrambi ebbero in comune un'esperienza strana: Stalin si interessò a loro (e ne risparmiò la vita) in modo diretto, con due sbalorditive telefonate che sono rimaste negli annali della letteratura russa del tempo. Ed entrambi subirono in un certo senso l'ipnosi di quel grande autocrate comunista, ne sentirono cioè la forza demoniaca, ma non per questo meno enigmaticamente suggestiva. Nei Manoscritti non bruciano. Lettere scelte 1927-1940, che Stefania Pavan ha curato, si trova la straordinaria missiva che, con coraggiosa e disperata sincerità, Bulgakov scrisse al «Governo dell' Urss», cioè a Stalin nel 1930, quando egli era sull'orlo della catastrofe sotto l'incalzare delle persecuzioni da parte degli ideologi del regime. Anticomunista per innata libertà interiore, Bulgakov non fu però conservatore, piuttosto un liberale fiducioso in un grande processo evolutivo e avverso a una violenza rivoluzionaria