L'etranger
Vasco Rossi: «Vero, ho dovuto sforzarmi parecchio. Ho dovuto violentarmi. In passato mi ubriacavo già dal giorno prima per trovare il coraggio di affrontare il pubblico. Poi ho capito che avevo più paura del fantasma della realtà che della realtà stessa. Oggi cerco in tutti i modi di distrarmi e di non pensarci fino a quando salgo sul palco. A quel punto, dopo un primo momento di puro panico, la concentrazione e la musica prendono il sopravvento e non ho più il tempo di pensare. Ho una teoria sulla timidezza. Penso sia una forma di egocentrismo che ti fa bruciare il 70 per cento delle energie per niente. È quasi una malattia. Da ragazzo non volevo entrare al cinema con la luce accesa, un amico mi diceva: “Ma chi pensi di essere, non sei mica al centro dell’universo, la gente ha ben altro a cui pensare”».
Se quando io dico “casa” tu pensi alla tua casa e io ho in mente la mia casa, ognuno prende le parole con il proprio significato, quindi per comunicare veramente a volte non bastano le parole, ci voglio i gesti, le espressioni.
Ecco la musica è una grande forma di comunicazione. Se poi ci aggiungi le parole puoi arrivare facilmente al cuore.
Ma le parole devono essere poche e perfette, oneste e sincere, secondo me le minime indispensabili. E c'è uno sforzo, una ricerca stilistica dietro a tutta questa semplicità. Questa è l'arte della canzone, che per me è una polaroid di emozioni. Toccare il cuore della gente è quello che ho sempre cercato di fare, e quando ci sono riuscito è stata la mia più grande soddisfazione, e ringrazio sempre il cielo e la chitarra.
La chitarra, appunto, perché è quella che mi ha permesso di comunicare, di arrivare fin qui. Di mettere in musica i miei disagi, le mie disillusioni, le mie ferite e il mio malessere.
Per il resto io non ho un buon rapporto nemmeno con il telefono. Quante volte vorrei dire, vorrei urlare ma mi sembra che non mi venga fuori la voce.