Crisi penitenziaria e diritti umani
Prima pagina venti notizie ventuno ingiustizie e lo Stato che fa si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità F. De Andrè', Don Raffae'
Nella lunga storia del penitenziario, il ricorso a parole come crisi o emergenza non costituisce una novità: i progetti di riforma del carcere sono coevi dell’avvento del carcere stesso e la discrasia fra funzioni dichiarate e funzioni svolte, l’inadeguatezza qualitativa e quantitativa delle risorse assegnate, la centralità egemone della pena detentiva pur in presenza di apparati ordinamentali aperti a forme alternative di punizione legale si configurano quali elementi stabili del sistema, e non solo nel nostro paese. In particolare, nel discorso pubblico sulle carceri, crisi, emergenza, sovraffollamento, diritti umani vengono da sempre correlati, e senza dubbio il sovraffollamento ‐ mai così grave, nel nostro paese, dall’avvento della forma repubblicana ‐ costituisce elemento di esponenziale amplificazione dei fattori della perenne crisi dell’istituzione penitenziaria, generando condizioni di cui solo in parte le descrizioni che se ne possono fare, se ne fanno e se ne faranno possono e potranno dare compiutamente conto: i racconti degli operatori e delle persone detenute risultano accomunati, con grande frequenza, dal presentare come una sfida il solo non rassegnarsi alla pura gestione della coabitazione coatta, allo scopo di mitigare l’umiliazione della dignità ed umanità di chi, a vario titolo, vive in carcere anche solo per una parte della giornata. A partire dalla cennata correlazione fra carcere (per definizione, in crisi/emergenza) e diritti umani (nel carcere per definizione in crisi, insufficientemente rispettati), si offriranno di seguito alcune considerazioni sui processi che, in