Les hommes ne desirent

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Le scelte degli elettori italiani all’estero nelle recenti elezioni politiche hanno creato sorpresa in molti osservatori, probabilmente perché, pur essendo consapevoli dei grandi sviluppi economici e sociali delle nostre comunità, molti non si erano resi conto che questa evoluzione si era accompagnata ad un salto di qualità sul piano culturale e su quello politico.
In realtà, oggi le nostre comunità hanno molto spesso una consistenza ed un peso culturale notevoli in seno ai paesi ospitanti. Forse è venuto il momento di prendere seriamente in considerazione queste risorse anche a vantaggio della nostra politica culturale all’estero.
Tradizionalmente la cura delle comunità italiane è stato appannaggio quasi esclusivo dei consolati. I rapporti con i nostri istituti di cultura sono stati per lo più episodici, più o meno felici, ma comunque non organici. Cio’, mio avviso, non è dipeso tanto dalla buona o cattiva volontà di singoli individui quanto dalla struttura delle istituzioni che presiedono alla politica culturale italiana nel mondo.
Gli istituti di cultura, come è noto, sono nati nel ventennio fascista sopratutto come strumenti di propaganda e per affermare, come si diceva, il prestigio dell’Italia nel mondo. In coerenza con una concezione tutta strumentale della cultura, gli istituti furono concepiti come semplici pedine del gioco diplomatico. Furono quindi posti alla completa dipendenza del Ministero degli Affari Esteri e per la loro gestione corrente venne utizzato personale proveniente dal Ministero dell Pubblica Istruzione. La direzione generale delle relazioni culturali, affidata a diplomatici di carriera, ne assicurava una gestione sopratutto burocratica e diplomatica. Tale impostazione e tali strutture sono pervenute pressocché inalterate fino ai giorni nostri. La riforma del ministro De Michelis del 1991 si è sopratutto preoccupata di rendere più organica la dipendenza del personale dalla struttura diplomatica e di affidare esclusivamente al

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